19-02-2023

O tempora, o mores! - Parte 2

E ora ci hanno rubato anche Roald Dahl...

Continuiamo a parlare di cancel culture (o presunta tale) e degli effetti di questa sui prodotti culturali tradizionalmente fruiti dal pubblico. Dopo la questione di Don Rosa (che probabilmente si estenderà ad altri autori Disney: se si censura il Gongoro di Rosa, è evidente che anche quello di Barks subirà questa fine, così come altre rappresentazioni problematiche in Gottfredson), è spuntato il caso della ripubblicazione dei libri di Roald Dahl, con svariati passaggi modificati, per adeguarsi al sentire contemporaneo nei riguardi degli stereotipi razziali e dell’uguaglianza di genere. Un esaustivo articolo del Post esplica i dettagli.

Gruppi sociali sempre più estesi e bellicosi si sono espressi, con motivazioni anche sensate e lontane da possibili accuse di pregiudizi vari (basti pensare allo stesso Salman Rushdie citato dal Post). Trovo sia necessario fare un discorso in merito, per pulire la narrazione da convinzioni dettate dalla foga e per evitare che tali movimenti possano essere sfruttati da chi vorrebbe usare una comprensibile indignazione come cavallo di troia per promuovere le proprie politiche sociali, ben più lesive alle vite di gruppi minoritari oppressi di quanto queste iniziative corporative potranno mai essere.

Attualmente è diventata rilevante l’urgenza di rendersi conto che esiste un pubblico a cui i prodotti commerciali e culturali sono diretti che è ben più ampio del maschio-bianco-etero-cis non a torto tanto vituperato. Nella storia culturale occidentale è evidente come si sia perpetrata una schematica segregazione fra un noi ristretto (a volte ai bianchi, a volte ai maschi) a cui si contrapponeva un loro indicato spesso con connotati approssimativi, stereotipati, lesivi della dignità altrui. È la realtà delle cose e bisogna accettarlo. A volte tali visioni del mondo non erano neanche volontarie, quanto un prodotto dell’humus culturale, una sincera incapacità di percepirsi come una delle tante soggettività che popolano questo mondo. È indubbio che opere comunque così composte abbiano costituito un ricco patrimonio culturale, dotato di rilevanza che travalica i limiti imposti dagli accidenti legati alla loro realizzazione. È ugualmente indubbio che se in passato si potevano accettare tali semplificazioni da parte di un pubblico comunque omogeneo con l’autore nella percezione del mondo come un monologo del maschio-bianco-etero-cis, ora appare naturale riconoscere la presenza di un pubblico ben più ampio, portatore di diverse sensibilità. Sensibilità spesso ingiustamente dileggiate in passato.

Quello che abbiamo visto negli ultimi decenni è stata una presa di coscienza della parzialità della visione che in precedenza era totalizzante della letteratura del mondo occidentale. Noi facevamo una letteratura dal nostro punto di vista per un pubblico a noi omogeneo. E a valle di questo processo pretendevamo che queste opere nate dalla moltiplicazione delle parzialità e delle soggettività fossero foriere di universalità. Se questo poteva essere in larga parte riconosciuto si deve unicamente al fatto che siamo tutti esseri umani e che quindi esistono delle meccaniche fondative comuni, nonostante tutto attorno possa rivelarsi diverso. Ma, appunto, tutto il resto attorno rimaneva diverso. Se il kernel di diverse opere risulta condivisibile, tutto il contesto rimane dibattuto e dibattibile

Questo in un mondo ideale non dovrebbe essere un problema. Continuare a fruire di opere che soffrono di elementi problematici non è impossibile, avendo la capacità di isolare le problematicità e capirne la funzione all’interno del testo, ovvero inquadrare il contesto socio-culturale che le ha generate, salvando il kernel di condivisibile analisi della comune esperienza umana di cui si è detto in precedenza.

Entra però un gioco un secondo fattore, sempre già indicato nel posto precedente, ovvero il capitale.

Mi spiego meglio. Cosa hanno in comune Roald Dahl, i fumetti Disney, il cinema di largo consumo, ecc.? Il fatto di essere presentati come strumenti di intrattenimento e di educazione per un pubblico familiare, comprendente anche i bambini.

E non a torto. Certamente parte degli intenti di chi ha prodotto oggetti culturali per bambini o per famiglie è certamente educativo, non lo nego. Ma è proprio così che scatta il problema. Se si concepiscono queste opere come opere con intenti (anche) educativi, non possono permanere nelle loro edizioni contemporanee elementi antieducativi per il sentire moderno. Si genera un conflitto fra la volontà di preservare opere dall’innegabile valore letterario con la presunta necessità far lor assolvere uno degli scopi originali. Se si vuole (anche) educare tramite queste opere non possono permanere aspetti antieducativi, ma se si vuole (anche) preservare queste opere come prodotti culturali dotati di un proprio valore in quanto tali ed espressioni della propria epoca, edulcorarne aspetti è un comportamento stolidamente iconoclasta. Una cosa è voler vendere libri per bambini, incidentalmente di Roald Dahl (forse solo per avere un nome di richiamo), un’altra è voler vendere prima di tutto libri di Roald Dahl.

Il dilemma sta nel trovare un equilibrio fra questi aspetti confliggenti. Il dilemma è amplificato dal sistema capitalista che pretende di continuare a vendere oggetti culturali secondo il loro valore nominale, nonostante il loro valore nominale in circoscritti ambiti sia sorpassato.

Anche nell’altro post parlavo di valore nominale, senza spiegare cosa intendo con questa espressione, qui vi porrò rimedio. Intendo per valore nominale il fatto di prendere un’opera culturale ed accettarla per com’è, senza problematicizzare gli aspetti che necessitano di analisi più scrupolosa. Valore nominale e leggere la Divina Commedia e credere che Dante abbia incontrato tre fiere e basta, trascurando il valore allegorico della visione; valore nominale è leggere Dahl che cita mestieri femminili come la cassiera o la segretaria e fermarsi a ciò, identificandoli come mestieri squisitamente femminili, senza evidenziale come sia ciò dovuto al contesto socio-culturale. Per questo per Dante usiamo ore dell’orario scolastico per inculcare la stratificazione del testo della Commedia, mentre per l’aspetto culturale di testi composti in periodo diversi lasciamo alla sensibilità dei fanciulli la distinzione da fare fra kernel da introiettare, intrattenimento da fruire e ornamento socio-culturale da analizzare e superare.

Ora mi si dirà che con questo ragionamento svilisco le capacità intellettive della gioventù. Tanti sono vissuti leggendo le storie scorrette di Guido Martina e non sono diventati armaioli, tabagisti, alcolisti, elettori del Partito Repubblicano. Sì, ma si sta così affidando ad un terno al lotto la rappresentazione del tipo di società che desideriamo trasmettere ai nostri (vostri) figli. Non esiste nulla di naturale o innato nel discriminare o meno, nel considerare il prossimo proprio simile e non bizzarria etnica da wunderkammer orientalista o animale da circo. È la rappresentazione della società (reale o fittizia che sia) che trasmette questi concetti, che aiuta a sradicare il punto di vista soggettivo, ma con pretesa universale, sul mondo. Dire che i prodotti culturali non hanno effetti sui giovani è semplicistico ed errato. Anche i videogiochi? Anche i videogiochi. Per questo un’esperienza guidata o assistita dei prodotti culturali sarebbe auspicabile. Ma i genitori non hanno tempo, la scuola non ne ha i mezzi e perciò i distributori di prodotti culturali dedicati alla gioventù, si premunisce nel detergere questi da elementi contrari ai condivisi principi educativi ed etici contemporanei. E naturalmente le manchevolezze delle altre istituzioni presenti nella vista dei nostri (vostri) ragazzi è sempre riconducibile al sistema socio-economico imperante: il capitale.

Ora, modi di risolvere la questione ne esistono molti, che permettano la preservazione dell’opera culturale e della sua funzione educativa.

  1. Si potrebbero usare le prefazioni, i disclaimer, in pratica quello che Leonard Maltin faceva nei vecchi Disney Treasures, o quello che HBO ha fatto di recente con “Via col vento”;
  2. Si potrebbero realizzare versioni terse per la fascia di pubblico giovane e versioni complete per un pubblico adulto (quanti classici ridotti per un pubblico giovanile abbiamo letto?);
  3. Si potrebbero vendere queste opere al solo pubblico adulto, consegnandole all’Accademia;
  4. O si potrebbe fare quello che le compagnie hanno deciso di fare in questi giorni: modificare o eliminare le opere indiscriminatamente. Un pastrocchio, che non accontenta nessuno e conferma che per esse i prodotti culturali sono solo prodotti commerciali, trascurandone ogni altro valore.

Personalmente le prime due sono le opzioni preferibili, ma contesti diversi possono rendere necessarie soluzioni diverse. Come si è fatto in passato, in tempi non sospetti. Come evidenzia il Post, Dahl da vivo ha modificato alcuni suoi libri, ma anche altri casi si sono avuti nelle opere di intrattenimento di largo consumo. “Dieci piccoli indiani” nella sua prima versione era “Dieci piccoli ne*retti”, facendo riferimento ad una vecchia filastrocca ora modificata o dimenticata e nei Paesi anglosassoni il titolo è in molte edizioni (fin dagli anni ’60) “And then there were none”, per evitare ogni connotazione etnica problematica (e sottolineo, realmente problematica). Nell’ambito del fumetto, da sempre risulta difficile la ristampa di “Tintin in Congo”, opera in cui Herge aderisce a narrazioni colonialiste razziste e l’esaltazione della caccia. L’editore scandinavo ne richiese negli anni ’70 modifiche per adattarlo alle diverse sensibilità (cosa simile successe negli anni ’00 alle storie di Barks per quanto riguarda le fisionomie dei personaggi africani). L’editore americano, da almeno una ventina d’anni si trova in difficoltà con la pubblicazione: inizialmente aveva tentato di venderlo solo in edizioni per collezionisti, allontanandolo dai reparti dove poteva essere più accessibile ad un pubblico giovane, ma questo non era bastato e ha preferito, quindi, evitarne del tutto la distribuzione. Simili restrizioni sulla possibilità che finisca nelle mani di bambini sono presenti nel Regno Unito, Belgio e Svezia.

In conclusione, la questione è complessa e nasce dalla necessità delle aziende di sfruttare i prodotti culturali anche al di là della data di scadenza del loro valore nominale o di una parte circostanziata di esso. In un sistema in cui i prodotti di archivio o di catalogo, dopo un certo intervallo di tempo, divengono di pubblico dominio, porterebbe queste problematiche ad anestetizzarsi. Cosa che avviene, ma con tempi biblici, oramai lontani dalla velocità con la quale i sentimenti condivisi circa determinate questioni mutano (e c’è da ringraziare mamma Disney per molte delle storture in questo campo).

Ah, generalmente, i sentimenti citati prima mutano in meglio. C’è da sottolinearlo, altrimenti vedremo che le battaglie per preservare i patrimoni culturali dalla voracità delle corporazioni, che pretendono siano macchine da profitto private di ogni tridimensionalità critica, saranno sempre prerogativa delle destre regressive. E c’è, parimenti, da inquadrare questa questione della giusta prospettiva. Non sono isterie di ragazzette con i capelli blu che vogliono imporre un regime dittatoriale, bensì mutamenti sociali necessari e naturali, a cui le corporazioni rispondono in modo sconnesso e semplicistico, per ingraziarsi un pubblico sempre più variegato. Sembra che ci stiano facendo un favore (a noi progressisti), ma forse le loro reazioni così tranchant possono condurre alla radicalizzazione intere fette di popolazione con coscienza sociale poco sviluppata, ma che si vede toccare i pilastri della propria esperienza fondativa condivisa, che siano questi Don Rosa o Roald Dahl.

Timeo Danaos ut dona forentes.

[Mentre scrivevo Recchioni ha fatto pressappoco lo stesso ragionamento sul suo canale Telegram, ma meno marxista]